Eventi socio-culturali

La filosofia al femminile: Simone Weil tra cinema e realtà

La filosofia al femminile: Simone Weil tra cinema e realtà

Grandi donne e pensatrici del Novecento recentemente riscoperte dal teatro e dal cinema: incontri non comuni con menti e personalità straordinarie del recente passato, come quello che Emanuela Piovano propone con Simone Weil nella sua recente pellicola “Le stelle inquiete”

E’ uscito recentemente il film “Le stelle inquiete”, di Emanuela Piovano, dedicato a Simone Weil, una delle più grandi pensatrici ebree del Novecento. Una pellicola che prende spunto da un episodio breve e quotidiano della vita della giovane filosofa, assai poco nota al grande schermo, e che sembra indicare un nuovo orientamento del teatro e del cinema verso la grande filosofia al femminile del secolo scorso.

L’età dei totalitarismi ha conosciuto infatti una speciale fioritura della filosofia praticata da donne, in particolare di origine ebraica: si tratta di figure gigantesche, anche se non sempre adeguatamente conosciute, che hanno interpretato gli eventi tragici di cui sono state protagoniste con l’acutezza, l’intuito e la delicata profondità che sono tipici delle intelligenze femminili.

Osservatrici attente di una realtà troppo spesso incomprensibile, queste donne fuori dal comune hanno saputo sostenere la loro analisi e le loro riflessioni con un ideale alto, capace di guardare oltre le contingenze. Personaggi come Etty Hillesum, morta giovanissima ad Auschwitz vittima delle persecuzioni razziali, o Edith Stein, insigne esponente della filosofia tedesca convertitasi al Cattolicesimo dall’Ebraismo e anch’ella interprete sottile del suo tempo, rappresentano fiori di rara bellezza nel panorama culturale del Novecento.

Simone Weil: una filosofa sulla soglia

Tra loro e accanto a loro, quasi a fungere da cerniera per età, per scelte, per orientamenti, si colloca Simone Adolphine Weil (1909-1943), parigina di nascita ed ebrea di origini e di tradizioni, che potremmo definire “la filosofa della soglia”. Una donna che riflette sul mondo, sulla vita e sulla storia con gli occhi lucidi e determinati della cultura giudaica, cui appartiene per etnia e per condivisione, ma con una fede e con un afflato soprannaturale che rasentano, senza mai abbracciarlo esplicitamente, il cristianesimo autentico.

Un personaggio che si pone a metà strada tra la conversione compiuta di Edith Stein, realizzatasi anche nella scelta di entrare giovanissima nell’ordine carmelitano, e la integrale, per quanto pensosa e autonoma, continuità con la fede dei padri di Etty Hillesum. Un personaggio che non subì la medesima sorte di deportazione e di violenta soppressione degli altri ebrei, ma che ne abbracciò la profonda sofferenza, e che percepì il dovere etico di condividere la condizione degli ultimi: per questo assunse una scelta di precisa integrità, rifiutando di convertirsi al cattolicesimo, pur essendone attratta, per timore di essere proprio da esso limitata nella partecipazione al sacrificio di Cristo; per questo lei, che era una docente di filosofia nei licei della Francia e percepiva pertanto uno stipendio adeguato, decise di vivere con la stessa quantità di denaro dei disoccupati, e di lavorare per otto mesi come operaia in una fabbrica metallurgica di Parigi, dove si ammalò irrimediabilmente. Morì poi di tubercolosi nel convalescenziario di Ashford, non lontano da Londra, nell’agosto del ’43, a soli 34 anni.

L’ombra e la grazia: le riflessioni etiche di Simone Weil e la semplicità di un’estate in campagna

Tutte le opere della Weil vennero pubblicate dopo la sua morte: cronologicamente vide la luce per primo il testo capitale L’ombra e la grazia, una raccolta di pensieri redatta tra il ’40 e il ’42 e pubblicata nel ’47 ad opera di Gustave Thibon, cui la stessa autrice aveva affidato il manoscritto. Colpito profondamente dal fascino di Simone, il “filosofo contadino”, morto quasi centenario nel 2001 nella stessa fattoria dove era nato, ospitò in casa sua la giovane filosofa nell’estate del ’41, offrendole rifugio dalle persecuzioni razziali.

A questo evento, intimo e tutto sommato secondario, della vita di Simone Weil, si è ispirato il recente film Le stelle inquiete: si tratta dell’unica pellicola che sia mai stata dedicata alla giovane pensatrice, se si esclude Europa ’51 di Rossellini, in cui il personaggio di Irene Gerard, interpretato da una intensa Ingrid Bergman, era profondamente, ma solo implicitamente, ispirato alla vita e alle esperienze della Weil.

E’ la stessa Emanuela Piovano, regista de Le stelle inquiete, a ricordare quella scelta di Rossellini, rimasta a molti ignota. Dal suo recente lavoro arriva un film difficile, certamente imperfetto come tutte le cose del mondo, forse a tratti eccessivo, ma con il pregio di recuperare e presentare alla gente comune pensieri, sentimenti ed emozioni di un’anima e di una mente altissime.

Le idee e le parole della filosofia in un film: Simone Weil per il grande pubblico

Una giovane donna non bella, non elegante, che parla una lingua incerta, straniera tra i suoi simili. “Sempre con la matita in mano”, pronta ad annotare, “studiare e registrare quel che vede”, a “capire prima di riuscire”, una “figlia illegittima, alla ricerca delle proprie radici”: così la Piovano dipinge la sua Simone, per descrivere una vita estrema eppure apparentemente normale.

Consapevole di vivere in “tempi duri per le idee”, l’unica ricchezza che sa di possedere, insieme alla passione che la spinge, “famosa perchè pensa molto e parla poco”, pronta a condividere le sofferenze del mondo e a sperimentarne la quotidiana bellezza, apprezzando le piccole cose e il loro respiro di infinito, la Weil de Le stelle inquiete incarna l’anelito originario di tutti gli uomini ad individuare “qualcosa per cui si è nati”.

A sorreggere il suo modo di intendere la vita è la certezza che si debba lottare per “la difesa non dei privilegi di uno, ma del bene di tutti”:  per questo si sforza di “sentire il mondo intorno a sè”, “essere superiore alla paura”, “soffrire di quel che accade lontano da lei”, perchè “il mondo ha bisogno di aiuto immediato, e non può più aspettare”, e “assumendone su di sè i disagi, esso può migliorare: si può curare con le malattie”. Animata da tale convinzione, crede che si può contribuire alla storia anche restando in un angolo appartato, come quella fattoria nella regione del Rodano-Alpi, nel midi francese, che la accolse in quel luglio del ’41, donandole una parentesi di rara serenità, nel contesto di una vita tormentata e sempre sull’orlo dell’estremo.

“La storia è qui e noi siamo la storia”, ripete la Weil a Gustave; “qui sembra che il pensiero non possa diventare azione, tutto è così perfetto, e io penso a tutto quello che non farò mai restando qui”, si schermisce giustificando alla fine la scelta di lasciare la fattoria; ma intanto, finchè vi rimane, riconosce le cose belle che può apprendere in campagna, e insegna a condividere con rigore la sofferenza degli uomini: per questo avvicina gli operai della zona, usa la bicicletta, che trova “utile, pratica e democratica”, evita di mangiare per condividere la fame di cui sente l’eco lontana, e ripete che “il vero pensiero è nell’azione, quando si può fare, o nella contemplazione per essere parte del mondo”.
I sentimenti e la passione: l’intimità di Simone Weil immaginata e interpretata da una regista donna

Un simile modo di vivere incontra evidentemente le perplessità della gente che la circonda: “ecco a cosa servono le idee, ai grilli per la testa”, commentano le persone, mentre si interrogano su “come si possa amare tanto la vita e odiare così se stessi”. Ma per Simone, che “non può scrivere se non vive”, “la vera essenza del coraggio non sta nella forza, ma nella speranza”, e “il distacco resta la sola condizione per vedere Dio”, nella certezza che “verrà il giorno in cui ognuno di noi riceverà ciò che non ha avuto qua”.

Consapevolezza profonda del dolore dell’uomo e fede incrollabile in un Oltre ricco di infinito si fondono dunque in una diafana figura femminile, che d’improvviso diventa “bella quando vola, quando scrive, quando guarda le stelle e le lucciole”: a questa donna così straordinaria la Piovano attribuisce, probabilmente superando la realtà con la fantasia, una innocente storia d’amore, tutta implicita e non vissuta. E’ l’amore cerebrale tra Gustave e Simone, che si consuma, sotto gli occhi della giovane moglie dell’uomo, nelle parole e nei silenzi, in gesti appena accennati, senza mai un attimo di carnalità: l’unico amore possibile per una donna come la Weil, che sente “una repulsione invincibile per l’essere oggetto di desiderio”, convinta com’è che “ci può essere amore senza desiderio”. Proprio questo, se esiste, è l’amore che la lega a Gustave, a quell’uomo che “le ha insegnato a non avere paura degli altri degli uomini” e le cui parole “non traducevano la realtà ma la versavano in lei nuda, totale”. E’ la gratitudine per “un incontro morale che è amicizia”, per una relazione vera che consente la condivisione, per quel “nodo che non lega” che dovrebbero essere tutti gli affetti umani secondo la Weil: “tutto darsi, niente tenere”, come nell’innesto in agricoltura, “perchè la pianta non ne soffra”.

Questa in ultima analisi la lezione piena di poesia e di pensiero di una filosofa che cercava “una canzone, la canzone di questa Terra”, e che ammoniva a “chiedersi se l’amore abbia un senso”, intendendo per “amore non indulgenza, ma grande impegno”: una lezione che ancora oggi è bene continuare ad imparare.

Laura Carmen Paladino

Potrebbe interessarti