di Mariangela Giusti, Docente di pedagogia interculturale all’Università di Milano Bicocca
Il viaggio a Sarajevo di Papa Bergoglio della scorsa domenica è stato un fatto mediatico fortemente formativo. Il pontefice ha ripetuto più volte nelle sue omelie che la città, martoriata per tanti anni da una guerra fratricida basata principalmente su motivi etnici e religiosi, deve guardare avanti ed essere luogo di convivenza pacifica.
La lunga guerra recente nei Balcani ha rappresentato il tentativo esasperato di ricercare le essenze delle culture. E’ stata una guerra inutile e con migliaia e migliaia di vittime.
Le lettrici più giovani forse neppure ricordano quella lunga guerra che ha riempito tutti gli anni Novanta del Novecento. Ma è bene farne cenno, cogliendo dalle immagini della cronaca qualche spunto per riflettere.
Per ricordare quel conflitto si possono vedere su You Tube alcuni spezzoni di un film, ormai divenuto un classico: No man’s land (regia e sceneggiatura di Danis Tanovic, 2001, ambientato in Bosnia Erzegovina nel 1993, al tempo della guerra fra Serbi e Bosniaci) la cui idea originale è mostrare gli esiti nefasti degli atteggiamenti individuali improntati a un essenzialismo identitario e culturale tanto esasperato quanto inutile.
Il tema centrale del film è il razzismo in Bosnia Erzegovina, radicato nella storia più antica di quella terra e perseguito fino ad anni recenti, un razzismo che non riguardava più solo il colore della pelle. Lo scrittore Predrag Matvejevic’ raccontava, da testimone diretto, quanto fosse assurda e tragica la situazione nel suo paese: le persone da un essenzialismo sempre più esasperato erano passate col tempo a un razzismo feroce, che non era neppure razzismo di pelle, come in altri momenti della storia o in altri luoghi del mondo, ma razzismo ideologico, razzismo di fede. Matvejevic’ ricorda in un suo breve scritto (Tra asilo ed esilio, in AA.VV., SOS Razzismo, Feltrinelli, Milano 1997 pp.41-42) che le persone parlavano la stessa lingua, avevano la stessa origine slava, non si distinguevano l’una con l’altra vedendosi per strada. Ricorda che “a scuola avevo un amico che si chiamava Mohamed-Mustafà, io avevo un nome cattolico, un altro aveva un nome ortodosso, ma eravamo gli stessi, rassomigliavamo morfologicamente l’uno all’altro, eppure la purificazione etnica ha avuto luogo nello stesso corpo razziale”.
La vicenda di No man’s land è minimale ed esemplare, dunque pedagogica e formativa, se letta con il giusto distacco. E’ una vicenda scarna, ambientata in una zona di guerra.Cosa racconta quel film? Per una serie di circostanze casuali, due soldati bosniaci e due serbi si trovano faccia a faccia in una striscia di terra che non appartiene né all’uno né all’altro esercito. In quella situazione di isolamento, anziché sperimentare una via di collaborazione possibile, permangono nei rispettivi convincimenti essenzialistici sulla propria identità, continuano a nutrire odio e pregiudizi nei confronti di qualunque essere umano che, per il solo fatto di appartenere all’altra etnia, è visto e vissuto come nemico. L’esito è scontato: nessuno di loro si salva dalla ferocia essenzialista e dalle pallottole degli altri. Danis Tanovic ha uno sguardo critico e melanconico sulla microstoria che racconta, specchio cruento e ingrandito di quanto, in quella parte di Europa così vicina a noi è avvenuto a milioni di persone. Costruisce la sua sceneggiatura intorno a quattro esseri umani di sesso maschile, colti nella loro più nuda e misera umanità: feriti, affamati, stanchi, in qualche momento persino tentati dal dialogo, tentati dal moto spontaneo di conoscersi. Il più giovane dei quattro, Nino, più di una volta prova a dire il suo nome, prova a presentarsi, prova a porgere la mano, ma alla fine il suo odio verso l’identità nemica non sarà minore dell’odio degli altri.
Il paradosso è che, anche in una situazione-limite come quella, prevalgano le ragioni dell’appartenenza ferrea, dell’essenzialismo cieco e della separatezza; ragioni vissute da ciascuno dei quattro uomini come i valori primari, dai quali far discendere ogni scelta, ogni comportamento, ogni azione.
Il conflitto serbo-bosniaco, vicino a noi nello spazio e nel tempo (quasi offuscato nella sua gravità dai tanti eventi terribili e successivi della cronaca, fra cui l’esplosione delle Torri gemelle di New York, la guerra in Iraq, la guerra in Libia), è un esempio atroce degli esiti di un essenzialismo esasperato, che pure non è nato dal nulla ma ha covato per anni prima di esplodere nei massacri. Sono molto lucide e da tenere a mente le parole di un sociologo, profondo conoscitore diretto delle diverse realtà europee ed extraeuropee: Ettore Gelpi. Gelpi più volte ha chiamato in causa il mondo dell’educazione. Era dell’opinione che i ragazzi debbano essere informati su come vanno le cose; chiamava in causa la pedagogia e la scuola dal suo esteso osservatorio sul sociale (l’ufficio dell’Unesco a Parigi) e dai suoi continui viaggi in tutte le parti del mondo.
Le grandi adunate di folle che abbiamo visto nei servizi televisivi ad ascoltare in preghiera Papa Francesco rappresentano un evento mediatico formativo: riportano il pensiero agli anni della guerra etnica in quel paese e consentono anche ai ragazzi più giovani di interrogarsi sul perché Sarajevo sia una città simbolo. Al di là del profondo valore religioso che indubbiamente il viaggio di Francesco ha, ci consente di coniugare la memoria collettiva di una guerra che ha interessato diversi popoli fratelli con la realtà attuale di una Europa che stenta a trovare delle strutture portanti (che non siano solo principi rigidi economici) che consentano di non ripetere episodi simili di guerre fratricide…