di Mariangela Giusti, Docente di pedagogia interculturale all’Università di Milano Bicocca
In questa settimana le vetrine di tanti negozi hanno aggiunto i simboli di Halloween. Proprio il 31 ottobre, dovendo consegnare a mano dei materiali a una casa editrice, mi sono trovata a passare a piedi da una zona centrale di Milano e ho avuto modo di vedere quanto questa usanza si sia diffusa nei negozi del Centro. Halloween è una festività anglosassone che trae origine da ricorrenze celtiche (All-Hallows-Eve); ha assunto negli Stati Uniti le forme accentuatamente macabre con cui oggi la conosciamo dappertutto. Le caratteristiche di questa festa sono varie: sfilate e feste in costume, giochi dei bambini (nei telefilm americani ancora girano di casa in casa recitando la formula ricattatoria del dolcetto o scherzetto). Tipica della festa è la simbologia legata al mondo della morte e dell’occulto, così come l’emblema della zucca intagliata, derivato dal personaggio di Jack-o’-lantern.
L’altra mattina, appunto, in centro a Milano, sono stata molto stupita dalle vetrine strapiene di maschere, oggetti e figure paurose. Soprattutto mi ha stupito l’addobbo (in stile macabro funereo) predisposto all’interno di una piccola lavanderia: quando passavo di lì ho visto ci miei occhi due bambini insieme alle mamme e ho notato che si tenevano ben distanti dalla grossa costruzione funerea in cartapesta che prendeva buona parte del negozio (oltre tutto piccolo…). Per quanto palesemente finta, quella costruzione incuteva loro paura. La proprietaria della lavanderia non si era posta l’interrogativo: esaltare la simbologia di Halloween oppure impaurire i figli piccoli delle clienti? Ma poi: i bambini sanno riconoscere la paura? Vengono educati a fare fronte alla paura? Sì, certo: i bambini imparano a comprendere e sentire le emozioni (fra cui la paura) collegate a eventi reali e immaginari; a oggetti reali o di cartapesta. Tuttavia, non è affatto automatico che sappiano distinguere la realtà dalla fantasia. C’è un processo di insegnamento e di acquisizione che cambia da soggetto a soggetto.
Negli ultimi decenni gli studiosi di pedagogia e di processi evolutivi attribuiscono sempre più importanza alla capacità dei bambini di conoscere le emozioni proprie e dei coetanei. Alcuni di loro imparano presto, altri negli anni della scuola dell’infanzia (3-6 anni) mostrano difficoltà a comprendere e dominare le emozioni. Ciò può creare poi difficoltà nelle relazioni coi coetanei negli anni successivi. Le insegnanti e le educatrici delle scuole dell’infanzia attribuiscono importanza a questo aspetto della crescita e propongono spesso attività di gioco e didattiche che aiutano i bambini a rappresentare le emozioni. Si tratta di un compito complesso: man mano che il bambino impara a prevedere le reazioni che il suo comportamento suscita negli altri, è in grado di orientare e contenere le proprie reazioni. Per esempio: invece che arrabbiarsi e esplodere in una bizza imparerà a contenere l’arrabbiatura, riuscendo a prevedere che la bizza gli causerà dei rimproveri.
Le attività pedagogiche di gioco che molte insegnanti propongono hanno questo obiettivo: aumentare la capacità dei bambini a orientare il proprio comportamento verso forme socialmente accettate, una capacità legata alla percezione che il bambino ha di se stesso e alla capacità rappresentativa che ha acquisito rispetto alle emozioni proprie e altrui. Le esperienze emotive di problem solving che le insegnanti propongono fanno nascere diverse capacità cognitive. Capire le espressioni emozionali è un compito importante. Le insegnanti quotidianamente affrontano situazioni relazionali complesse, gestiscono conflitti tra i bambini, intervengono nel compito di insegnare a esprimere le emozioni e a saperle riconoscere.
Per esempio, talvolta propongono attività di “Fare la faccia”, con l’obiettivo di valutare la capacità dei bambini di riprodurre volontariamente un’espressione facciale su richiesta dell’insegnante tra le quattro espressioni di base: tristezza, paura, rabbia, gioia
Altre attività propongono ai bambini di costruirsi la propria personale scatola della paura: ciascun bambino deve decidere il colore della scatola, le immagini che rappresentano (per lui) la paura, da ritagliare e attaccare sul coperchio; poi ha il compito di colorare le immagini che ha scelto. Dopo la prima fase basata sulla manualità, l’insegnante cerca coi bambini le parole che per loro indicano la paura. L’insegnante scrive le parole, i bambini provano a ricopiarle e le mettono dentro la scatola; anche attraverso il disegno vengono riprodotte graficamente le cose che fanno paura. Tutto poi (parole scritte e disegni) viene messo dentro la scatola, avendo l’accortezza di chiuderla bene e nasconderla in un angolo poco in vista…!!
Le ricerche di Vygotskij (S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, ricerche psicologiche, trad. it.,Laterza, Roma, 2006) hanno dimostrato che una buona cooperazione fornisce la base dello sviluppo individuale; i processi cognitivi si attivano quando il bambino interagisce con persone del suo ambiente e in cooperazione con i suoi compagni che lo inducono a riflettere ed autoregolare il proprio comportamento. Una volta che questi processi sono interiorizzati, diventano parte del risultato evolutivo autonomo del bambino. L’autonomia quindi non è un generico saper fare da sé o un darsi autonomamente norme, in modo avulso dal contesto di riferimento. E’ piuttosto un sapersi collocare nello spazio/tempo sociale, fatto di relazioni ed emozioni, centralità e marginalità, limiti e possibilità, permessi e divieti, attese e bisogni a cui si trova una risposta a volte sollecita e a volte differita nel tempo. Da tutto ciò deriva anche la disponibilità a risolvere gli inevitabili conflitti connessi alla relazionalità e la capacità di costruire competenze cooperative. Si tratta cioè, per la scuola, di contribuire allo sviluppo di quell’intelligenza sociale che spesso i nostri bambini non possono esercitare a causa della struttura dei nuclei familiari e del tipo di vita che a volte conducono